Tratto da "Gazzetta del Sud", 13 gennaio 2004
Prendere una Vespa scassata, un giorno d'estate. Mettere la prima, andarci per un po', senza casco, in calzoncini e ciabatte, in una strada polverosa di Padangbai, in Indonesia. E prenderci gusto, vedere i bambini che ti salutano guardandoti come un matto. Prenderci gusto, e non fermarsi più. Fino a fare il giro del mondo. Dapprima un viaggio da Roma a Saigon, durato 9 mesi e quarantamila chilometri. Poi uno nord-sud dall'Alaska alla Terra del Fuoco. E infine un viaggio che attraversa tutti i continenti, e praticamente tutte le terre emerse. Traversando anche la Siberia, migliaia di chilometri senza neanche una strada, portando la Vespa sull'erba gelata, sulla terra. Perché lui ha fatto tutto questo con una Vespa, una normalissima Vespa PX, quelle «con le frecce» che anni fa andavano di moda, e ora sono state superate nel design dagli scooter leggeri del nuovo millennio. Ma funzionano bene, le Vespe, eccome se funzionano. Giorgio Bettinelli, milanese, ci ha fatto tre volte il giro del mondo, senza praticamente sapere niente di meccanica. Neanche come si cambia una candela, o il filo del gas. E la volta che ha rischiato di morire non è stato per un pneumatico che scoppia o un motore che grippa, ma perché i guerriglieri congolesi lo hanno imprigionato e trattato come una spia. Condannato a morte. E salvato da uno di quei miracoli che, negli ultimi dieci anni, hanno aiutato il suo cammino. Lo vedi nelle foto, e Giorgio Bettinelli, non ha una faccia da folle, da invasato, da temerario. Sembra un po' Marco Ferradini, quello di «Teorema». Magro, sorriso, baffoni, sguardo quasi timido. Non servono muscoli o pazzia per vincere una scommessa così grande. Forse serve di più la ragionevolezza, la capacità di risolvere i problemi senza perdersi d'animo. Giorgio Bettinelli in Africa, Australia, America Latina, Siberia ci è andato con un paio di jeans, una Vespa... e una chitarra. «Non la stessa», precisa. «Qualche volta mi serve da antifurto: quando entrano, prendono la chitarra e lasciano stare il resto». Con la chitarra, Giorgio Bettinelli ha scritto, strada facendo, centinaia di canzoni. Adesso ne ha messe alcune in un cd. Ha chiamato a raccolta alcuni amici musicisti, come Lucio Fabbri della Pfm, e ha intitolato il cd «Dovunque sia». In 254.000 chilometri in giro dappertutto, ha imparato molto più di musica che di meccanica: «ho ascoltato musiche etniche di tutto il mondo. In compenso, non ho mai un cacciavite con me». Appunti di viaggio non ne prende: aspetta gli intervalli tra un viaggio e l'altro, per recuperare tutto quello che ha dentro gli occhi, e scriverne. Il primo libro, «In vespa», pubblicato da Feltrinelli, è stato un successo travolgente e inatteso. Tutti quelli in lista d'attesa per un viaggio o un sogno l'hanno comprato. E il successo ha spinto Feltrinelli a pubblicare anche il resto. «Brum brum» racconta i suoi successivi tre viaggi, compresa la prigionia fra i ribelli congolesi. «E «Brun brum 2», di prossima uscita, chiude l'anello fino al presente. E nell'ultimo capitolo, fra un vagabondare e l'altro, senza fissa dimora per scelta, c'è anche una pagina importante: «tre mesi fa mi sono sposato con una ragazza taiwanese, quella a cui è dedicato "Brum brum"». Ma sposarsi non significa fermarsi, per lui. «In questi dieci anni continuati di viaggi», dice, «sempre mi ritrovavo riflessa allo specchio una faccia che mi piaceva. Una faccia che non avevo mai avuto, finché restavo a casa mia». E così, ecco dieci anni di strade, e di mani sulle manopoline di gomma di una Vespa, ogni giorno rischiato in strade piccole, con camion che ti buttano fuori strada. Con una fiducia incrollabile nella ragione e nel cuore della gente. «Non mi sono mai portato una tenda. Preferisco una camera d'albergo, anche miserrima. O persino bussare a casa di qualcuno. Ma così c'è un contatto umano. Un viaggio da solo è tutto meno che un'avventura solitaria», dice. «Uno che arriva da chissà dove, su una Vespa con una chitarra nel portapacchi, è impossibile non rivolgergli la parola». La vera solitudine, non lo dice ma di sicuro lo pensa, è nelle nostre città. Semmai, il vero dolore è perdere ogni mattina i luoghi e gli occhi che hai appena incontrato. «A volte, andarsene è come farsi tagliare un braccio. Ma mai disperare. Si va, ma magari dopo anni, si ritorna». E il suo libro è pieno di ritorni, di persone incontrate per un giorno, in posti sperduti del mondo, e poi ritrovate, dopo anni, come in una favola. E il freddo, la pioggia, i fulmini, le malattie? «Quando piove, ti bagni e poi ti asciughi», dice. «Influenze vere, in dieci anni, nemmeno una. In compenso, per due volte ho preso la malaria, in Africa». Ma niente sembra avere scavato cicatrici in lui. E ti scopri a pensare che la vita può essere più pesante, e più dura, e più amara, proprio quando cerchi di viverla al riparo, dentro una casa riscaldata, cercando di evitare il vento, la pioggia e l'imprevisto.
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